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Ebbene sì, sembra che la scienza abbia dato una risposta attendibile in merito ad annosi, dibattuti temi, quali cattiveria e bontà. Senza voler assolvere cattivi storicamente noti per la loro ferocia, partendo da Erode, Nerone, Vlad III di Valacchia, all’inquisitore Tomàs de Torquemada, le cui atrocità avrebbero fatto impallidire perfino il celebre boia della Roma papalina Mastro Titta (1779-1869). Senza nulla togliere a nobiltà, amore innato, ispirazione, spirito altruistico, che costutuiscono la missione dei buoni, citandone alcuni del calibro, di Madre Teresa di Calcutta, Ghandi, Martin Luther King. Studi recenti hanno messo in evidenza che la cattiveria o il suo opposto, non sono unicamente frutto dell’ambiente in cui l’individuo è stato allevato ma di alcune varianti genetiche in grado di modulare l’interazione che questo ha con l’ambiente circostante; varianti coinvolte nel metabolismo dei neurotrasmettitori del cervello, che possono essere associate ad un maggior rischio che la persona sviluppi comportamenti socialmente pericolosi. Bisogna però precisare che possedere tali modulazioni genetiche non è un fattore sufficiente a far si che si sviluppino condotte crudeli o criminali. Come anche la stessa bontà, gli atteggiamenti costruttivi, esemplari per la società, non sono solo il risultato della mancanza delle suddette variazioni genetiche. La scienza afferma infatti che entrambi i fattori, ossia la variante genetica detta “allelica” e ambiente, concorrono in parti eguali al modo di essere. D’altronde con un patrimonio genetico di 22.000 geni come quello umano, il concetto di “libero arbitrio” può a volte diventare astrazione.
Laura A.
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